Dal libro Pepite |
Gli interventi sono stati di ottima qualità: ben legati tra loro, pur nella
varietà dei contenuti e delle opinioni, hanno offerto molti punti di
riflessione e di discussione. Nulla da dire sotto il profilo
organizzativo: l’evento si è svolto in scioltezza senza
particolari intoppi a parte l’improvvisa malattia di un’interprete
LIS e qualche problema audio legato al microfono che ogni tanto
faceva le bizze. Dall’altra parte del tavolo, purtroppo, non
possiamo dire la stessa cosa. Tra i partecipanti, una trentina
scarsa, annoveriamo: una logopedista, tre insegnanti curriculari,
un’insegnante di sostegno e sei educatori. Se si considera il
lavoro capillare svolto dall’ENS contattando direttamente i
dirigenti scolastici delle scuole della Provincia con studenti sordi
iscritti con preghiera di divulgarlo alle famiglie ed a chi lavora a
stretto contatto con loro, il numero è troppo basso. Voci di
corridoio imputano questa assenza a due fattori: la quota di
iscrizione di 50 € giudicata troppo alta e l’impegno in termini
di tempo (un giorno e mezzo nel fine settimana) che leverebbe tempo
al riposo ed alla vita in famiglia.
E questa è cronaca.
Ora passerei alle mie
riflessioni e considerazioni in merito all’evento.
Mentre seguivo i vari
interventi, rimbombavano nella mia testa – a tratti con notevole
fastidio - due parole: “chiusura culturale”. Queste due parole
sintetizzano a mio avviso quello che è il vero handicap sociale ed
evidenziano come non sia stato colto il vero messaggio che questo
meeting voleva (poteva?) offrire: si parlava di diversi punti di
vista sul mondo dei Sordi ma a ben guardare la panoramica poteva
molto più ampia. Sostituire la parola “sordità” con qualunque
altra parola che esprimesse un concetto di diversità (straniero,
disabile, persone con diverso orientamento sessuale, emarginati,
disagiati ecc ecc) è un gioco da ragazzi ma evidenzierebbe come
certi concetti di fondo siano comuni a tutti, fatte salve le proprie
specificità. Ma questi concetti di fondo sono stati metabolizzati?
Prima di andare a capire
i diversi punti di vista, però, devo cercare di capire il
concetto-chiave: “diversità”. Sulla base di cosa, stabiliamo che
esiste una diversità? L’etichetta è il suo simbolo: c’è
un’abitudine piuttosto radicata di “marchiare” le persone in
base a fattori comuni, quali l’appartenenza, il colore della pelle,
il credo (o non-credo) religioso, l’orientamento sessuale, l’aver
qualcosa in più o in meno rispetto alla media. Finchè ci limitiamo
a porre l’etichetta per “mera comodità”, non ci sono
particolari problemi. Ma dal momento in cui arriviamo a fare
confronti o ad esprimere dei giudizi, le cose si complicano non poco.
È qui che nasce la diversità: quando siamo consapevoli che gli
appartenenti a quell’etichetta possono essere meglio o peggio di
noi. Sono diversi da noi e – messaggio subliminale - bisogna
diffidare perché possono minare la nostra vita sociale. Sembra un
messaggio piuttosto forte, forse troppo estremista, ma a pensarci
bene l’uomo è un animale e come tale ha nel suo DNA un forte
istinto di sopravvivenza, non necessariamente solo fisica. Quando,
nella crescita, l’uomo deve “aprirsi” in un contesto sociale,
deve giocoforza entrare in un gruppo di persone a lui simili,
scoprendo e coltivando quindi la propria identità ed il senso di
appartenenza. Tanto più quest’ultimo è forte, maggiore è lo
stimolo di competizione: noi siamo i migliori, gli altri no.
Al giorno d’oggi
facciamo fatica ad aprirci verso l’altro: siamo diffidenti nei
confronti di mondi sconosciuti. Del resto quando suonano al
campanello, prima di chiedere chi è, guardiamo nello spioncino prima
di aprire. Chi conosce per diretta esperienza mondi e culture
diverse, non ha problemi ad avventurarvisi, perché si fida, sa dove
andare e cosa fare. Il disagio nasce quando non ci si fida, quando ci
basiamo sui giudizi e sulle esperienze di altri, su informazioni
avute “per sentito dire”. In una parola, quando si ascoltano i
pregiudizi, “il giudizio prima della conoscenza”. Non
necessariamente ci basiamo su esperienze degli altri in quel mondo
diverso, ma anche sulle nostre brutte esperienze nei confronti di un
appartenente di quel mondo. Abbiamo l’abitudine di “fare di tutta
l’erba un fascio”: se uno straniero è un criminale, per forza di
cose, tutti gli stranieri sono criminali. Se un sordo non parla, per
forza di cose, non è intelligente. Se un uomo si sente donna dentro,
per forza di cose, è malato. Così via discorrendo.
Sono anni che, almeno per
quanto riguarda il mio mondo, ripetiamo gli stessi discorsi alle
stesse persone: discorsi che hanno un’ovvietà talmente disarmante
che dovrebbe essere inutile solo ripeterli. Anzi, si dovrebbe dare
per scontato da arrivarci da soli. Ma quando si litiga nel
riconoscere o meno alla Lingua dei Segni lo status di lingua oppure
nel considerare l’importanza di una comunicazione visiva per chi ha
orecchie “malate” ma occhi che funzionano, a beneficio comunque
di tutti, mi rendo conto che ci fossilizziamo dietro falsi problemi e
ci troviamo di fronte a quelle due parole che rimbombano nella mia
testa: “chiusura culturale”.
Per queste
considerazioni, ritengo importante l’informazione ma soprattutto il
confronto dei diversi punti di vista. Lo “scontro” dà ricchezza,
consente di aprire le menti e di spogliarsi di quei dubbi e di quelle
paure che creano muri e barriere culturali.
Aprirsi verso l’altro
non significa solo riconoscere che l’altro esista, ma essere anche
consapevoli che tanti “IO” diversi messi insieme possano formare
un “NOI” forte senza necessariamente essere in competizione.
Ecco quello che
rimbombava nella mia testa durante il meeting.
Un meeting che propone
questa sfida “culturale” di aprire le menti e scoprire diversi
punti di vista val bene 50 euro ed un po’ di tempo negato al riposo
ed alla famiglia perché sono valori aggiunti al proprio bagaglio
culturale ma soprattutto perché consente di avere una visione
diversa e, a mio avviso, ottimistica e di proporre contributi attivi
per migliorare questa società che soffre ancora di “chiusura
culturale”.
La mia speranza è che
almeno i presenti abbiano colto questo messaggio e si facciano
promotori, nel loro piccolo, di una voglia di cambiamento e di
apertura.
Sono anni che ci provo e
non demordo.
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